L’articolo di Marco Ferrando uscito sul Sole24ore di mercoledi 7 dicembre non poteva tenere in considerazione i dati (molto positivi) relativi all’andamento del mercato fintech italiano, resi noti qualche giorno dopo dal Politecnico di Milano nel corso della presentazione dell’edizione 2022 del suo Osservatorio.
Prediamo però questo articolo come autorevole ed ulteriore testimonianza che il lungo processo di trasformazione digitale del mondo finanziario non è solo iniziato ma ha anche compiuto grandi e sostanziali passi in avanti.
Forse, come sostiene Ferrando, non si tratta di capire chi vincerà la sfida fra Davide (le fintech) e Golia (le banche). E per una semplice ragione: i due soggetti sono chiamati a convivere nel mondo digitale che via via si sta configurando. E ce lo dice in qualche modo lo studio di Mediobanca a cui fa riferimento il quotidiano di Confindustria.
A una condizione: capire in tempo la portata delle trasformazioni in corso e cooperare per coglierne tutte le opportunità. Le banche, insomma, non sono certo destinate all’estinzione, anzi. Ma devono cambiare pelle, anche grazie al ruolo di abilitatori dell’innovazione che giocano le fintech.
Alle banche, come si legge nell’articolo, si suggerisce espressamente di “prendere coscienza non solo della sfida che hanno di fronte, ma anche del fatto che c’è abbastanza tempo per evitare una reazione istintiva e, al contrario, adottare un comportamento razionale".
La raccomandazione riportata nasce proprio dall’analisi dei bilanci e delle strategie di una ventina di banche “tradizionali” europee attraverso la quale gli esperti di Mediobanca hanno ricostruito il profilo dell’istituto tipo.
Questo mediamente investe appena mezzo miliardo di euro l’anno su tre tecnologie chiave per abilitare la trasformazione: l’intelligenza artificiale e gli algoritmi di machine learning (che cattura l’82% del budget disponibile), l’informatica quantistica (il 3%) e la blockchain (il rimanente 15%).
Uno sforzo sufficiente? No. E neppure efficacemente indirizzato, secondo la valutazione di Mediobanca: le nuove tecnologie sono infatti utilizzate anzitutto per la gestione dei rischi, la multicanalità e le attività di back office.
Guardando invece alle 14 banche che hanno sviluppato nuove applicazioni fintech si scopre invece che ognuna ha drenato 1,3 milioni di investimenti e generato un ritorno di 1,9 milioni.
Resta un problema, non indifferente, legato a una focalizzazione molto marcata alla ricerca “disperata” di efficienza e all’accelerazione dei processi di automazione (chatbot in testa) mentre i progetti più ambiziosi, capaci di ripensare modelli di business e procedure operative, rimangono, una minoranza.
Non ci si deve certo stupire, dunque, se i due terzi del risultato operativo delle banche siano legate ancora a servizi “standard” e con un valore aggiunto “che non li mette al sicuro dalla concorrenza”.
La rivoluzione tech nel mondo della finanza – questo il dato su cui riflettere – potrebbe compromettere una quota compresa tra il 22 e il 36% dei ricavi delle banche tradizionali, che necessiterebbero di conseguenza di un taglio radicale (tra il 45 e il 75% della base attuale) sul fronte dei costi.
Quale quindi la terapia da intraprendere? Lo sviluppo dei margini legati ai servizi e ai prodotti standardizzati, con l’adozione massiccia di nuove tecnologie attraverso un approccio cooperativo alle sfide dell’innovazione. Una cura che consentirebbe alle banche di ridurre i ricavi solo del 18% e di migliorare sia il cost/income che il margine operativo (vedi grafico).
La sfida da vincere, per le banche “dinosauro”, è grande. E le fintech – nella duplice veste di competitor e partner - sono un elemento irrinunciabile dello scenario che si sta andando a creare dopo la meteorite digitale.